6. Dal breve al brevissimo
6.7 Influencer
A leggere le prime pagine dei giornali sembrerebbe la categoria professionale più odiata in assoluto. In verità, le figure dell’influencer e, la sua versione più sviluppata, del creator prosperano a dispetto della cattiva reputazione e dei preconcetti di chi non ha compreso la sua funzione. Come detto al momento scrivendo a proposito dell’organizzazione di una content strategy, non c’è differenza tra organizzare l’attività editoriale di un editore, di un’azienda o di un singolo personaggio pubblico. Tutti e tre sono dei media dal comportamento simile agli occhi dei propri seguaci, che si aspettano contenuti coerenti con i propri interessi e il profilo che hanno deciso di seguire. Gli influencer o i creator spesso non sono altro che l’evoluzione dei canali di comunicazione tradizionali, simili a questi anche nell’esigenza di mescolare contenuti editoriali ad altri prettamente commerciali che sono spesso la loro principale fonte di guadagno.
In tanti, almeno fino a qualche tempo fa, si scandalizzavano per le promozioni su Instagram o YouTube di questo o quel prodotto da parte di influencer e YouTuber, senza realizzare che il meccanismo è lo stesso che regola gli spazi pubblicitari della copia cartacea di Repubblica in edicola (in cui ci sono presenti articoli sponsorizzati mascherati con ben più malizia) o degli spot di Canale 5 che interrompono il reality di turno. Oltre ad avere spesso dei seguiti numericamente enormi, gli Influencer, così come il resto della pubblicità online, hanno la possibilità di poter fornire una completa tracciabilità di chi ha visto questa o quella promozione: età, gusti, sesso e profilo di consumi, un vantaggio non indifferente per le aziende che decidono di collaborare con loro. Gli imprenditori digitali sanno benissimo che, come già scritto, «money follows eyeballs» e in quest’ultimo periodo i nostri occhi passano più tempo attaccati allo schermo dello smartphone che a quello di altri supporti; ecco spiegato il successo dei vari creator online. Anche questa è la guerra dell’attenzione. Come sa bene Mark Zuckerberg, che ha fondato un impero sul mettere in contatto le persone proprio a partire dalle loro foto profilo, le persone si fidano di più dei propri simili che dei brand e degli editori. Ecco spiegata la proliferazione e la popolarità di queste categorie di distributori di contenuti che spesso i marchi o i media tradizionali sono costretti a inseguire o corteggiare.
Anche il rapporto tra tempo lavorato e riposo nella figura degli influencer è in qualche modo rivoluzionario. Questi si candidano a essere i prototipi dei lavoratori del nuovo millennio: per loro non esiste differenza tra tempo dedicato al lavoro e piacere personale, anzi è proprio quest’ultimo a divenire il momento di massima produzione di contenuti destinati al proprio pubblico, fenomeno portato alle estreme conseguenze dalla recente ondata di streamer su Twitch rendendo disponibile in diretta la loro esistenza quotidiana. L’influencer intraprende questo percorso soprattutto per soddisfazione personale, o almeno questa è l’illusione che il suo pubblico si attende, infatti per un creator il peccato più grande è quello di “rimanere indietro”, non poter essere presente in un flusso continuo di interventi che ne certificano la rilevanza.
Quando scriviamo che quello dell’influencer è il mestiere del futuro è una provocazione che risponde alla realtà del nostro ingresso nell’era della cosiddetta «persona-based-internet» secondo la definizione della scrittrice Jia Tolentino. Il meccanismo delle principali piattaforme online è basato sulla capacità di ciascuno di espandere la propria identità, un’aura necessaria a coinvolgere un pubblico, creare un seguito che possa comprare i prodotti di cui parliamo, consumare le informazioni che produciamo (leggere ciò che scriviamo, vedere ciò che produciamo) o visitare il negozio in cui lavoriamo. Qual è la differenza tra Kylie Jenner che, con le sue centinaia di milioni di seguaci Instagram, è stata in grado di costruire rapidamente un brand di make-up milionario, e i tanti autori (scrittori, giornalisti, opinionisti) che cercano di replicare nel loro piccolo lo stesso meccanismo per far conoscere il frutto del proprio lavoro intellettuale? «Essere uno scrittore oggi vuol dire essere un prodotto per il pubblico consumo su internet, proiettare un’immagine accattivante che possa mettere in contesto i contenuti che produciamo». A scrivere così è la giornalista Allegra Hobbs che su The Guardian descrive la dissoluzione di qualunque differenza tra una celebrity tradizionale e un autore di contenuti, ovvero colui che probabilmente starà leggendo queste righe. «Mi colpisce come ci sia ormai poca differenza tra uno scrittore con un avatar riconoscibile e un famoso social media influencer. L’unica differenza è nel modo in cui ciascuno metabolizza l’esperienza di influenzare gli altri. […] Chiunque deve avere una personalità in questo “persona-based-internet”, una personalità che però deve essere onesta o almeno sembrare tale. La scrittura come stile di vita e viceversa».
L’industria della comunicazione è in un profondo mutamento e in un equilibrio meno stabile che mai, e una strategia intelligente è quella di sfruttare la propria presenza nelle piattaforme e la propria voce per accumulare seguaci o addirittura abbonati ai propri servizi a pagamento. Il successo della recente ondata di creator economy sembra dimostrarlo: in tanti, anche tra celebri giornalisti, hanno abbandonato grandi gruppi editoriali per costruire il loro mini business lanciando prodotti rivolti a piccole nicchie di fan che decidono di sostenerli direttamente. Dai podcast alle newsletter esistono community verticali disposte a pagare il singolo autore per ricevere informazioni specifiche nella propria casella digitale, una fonte di guadagno diretta e autogestita che, soprattutto negli Stati Uniti, è diventata un’alternativa concreta ai tanti autori in balia di un mercato a cui mancano modelli di business affidabili. Per questi e molti altri motivi, a dispetto di quello che i media tradizionali raccontano, gli influencer sono qui per rimanere, anzi sono destinati ad aumentare di numero e a prosperare.
In tanti, almeno fino a qualche tempo fa, si scandalizzavano per le promozioni su Instagram o YouTube di questo o quel prodotto da parte di influencer e YouTuber, senza realizzare che il meccanismo è lo stesso che regola gli spazi pubblicitari della copia cartacea di Repubblica in edicola (in cui ci sono presenti articoli sponsorizzati mascherati con ben più malizia) o degli spot di Canale 5 che interrompono il reality di turno. Oltre ad avere spesso dei seguiti numericamente enormi, gli Influencer, così come il resto della pubblicità online, hanno la possibilità di poter fornire una completa tracciabilità di chi ha visto questa o quella promozione: età, gusti, sesso e profilo di consumi, un vantaggio non indifferente per le aziende che decidono di collaborare con loro. Gli imprenditori digitali sanno benissimo che, come già scritto, «money follows eyeballs» e in quest’ultimo periodo i nostri occhi passano più tempo attaccati allo schermo dello smartphone che a quello di altri supporti; ecco spiegato il successo dei vari creator online. Anche questa è la guerra dell’attenzione. Come sa bene Mark Zuckerberg, che ha fondato un impero sul mettere in contatto le persone proprio a partire dalle loro foto profilo, le persone si fidano di più dei propri simili che dei brand e degli editori. Ecco spiegata la proliferazione e la popolarità di queste categorie di distributori di contenuti che spesso i marchi o i media tradizionali sono costretti a inseguire o corteggiare.
Anche il rapporto tra tempo lavorato e riposo nella figura degli influencer è in qualche modo rivoluzionario. Questi si candidano a essere i prototipi dei lavoratori del nuovo millennio: per loro non esiste differenza tra tempo dedicato al lavoro e piacere personale, anzi è proprio quest’ultimo a divenire il momento di massima produzione di contenuti destinati al proprio pubblico, fenomeno portato alle estreme conseguenze dalla recente ondata di streamer su Twitch rendendo disponibile in diretta la loro esistenza quotidiana. L’influencer intraprende questo percorso soprattutto per soddisfazione personale, o almeno questa è l’illusione che il suo pubblico si attende, infatti per un creator il peccato più grande è quello di “rimanere indietro”, non poter essere presente in un flusso continuo di interventi che ne certificano la rilevanza.
Quando scriviamo che quello dell’influencer è il mestiere del futuro è una provocazione che risponde alla realtà del nostro ingresso nell’era della cosiddetta «persona-based-internet» secondo la definizione della scrittrice Jia Tolentino. Il meccanismo delle principali piattaforme online è basato sulla capacità di ciascuno di espandere la propria identità, un’aura necessaria a coinvolgere un pubblico, creare un seguito che possa comprare i prodotti di cui parliamo, consumare le informazioni che produciamo (leggere ciò che scriviamo, vedere ciò che produciamo) o visitare il negozio in cui lavoriamo. Qual è la differenza tra Kylie Jenner che, con le sue centinaia di milioni di seguaci Instagram, è stata in grado di costruire rapidamente un brand di make-up milionario, e i tanti autori (scrittori, giornalisti, opinionisti) che cercano di replicare nel loro piccolo lo stesso meccanismo per far conoscere il frutto del proprio lavoro intellettuale? «Essere uno scrittore oggi vuol dire essere un prodotto per il pubblico consumo su internet, proiettare un’immagine accattivante che possa mettere in contesto i contenuti che produciamo». A scrivere così è la giornalista Allegra Hobbs che su The Guardian descrive la dissoluzione di qualunque differenza tra una celebrity tradizionale e un autore di contenuti, ovvero colui che probabilmente starà leggendo queste righe. «Mi colpisce come ci sia ormai poca differenza tra uno scrittore con un avatar riconoscibile e un famoso social media influencer. L’unica differenza è nel modo in cui ciascuno metabolizza l’esperienza di influenzare gli altri. […] Chiunque deve avere una personalità in questo “persona-based-internet”, una personalità che però deve essere onesta o almeno sembrare tale. La scrittura come stile di vita e viceversa».
L’industria della comunicazione è in un profondo mutamento e in un equilibrio meno stabile che mai, e una strategia intelligente è quella di sfruttare la propria presenza nelle piattaforme e la propria voce per accumulare seguaci o addirittura abbonati ai propri servizi a pagamento. Il successo della recente ondata di creator economy sembra dimostrarlo: in tanti, anche tra celebri giornalisti, hanno abbandonato grandi gruppi editoriali per costruire il loro mini business lanciando prodotti rivolti a piccole nicchie di fan che decidono di sostenerli direttamente. Dai podcast alle newsletter esistono community verticali disposte a pagare il singolo autore per ricevere informazioni specifiche nella propria casella digitale, una fonte di guadagno diretta e autogestita che, soprattutto negli Stati Uniti, è diventata un’alternativa concreta ai tanti autori in balia di un mercato a cui mancano modelli di business affidabili. Per questi e molti altri motivi, a dispetto di quello che i media tradizionali raccontano, gli influencer sono qui per rimanere, anzi sono destinati ad aumentare di numero e a prosperare.